Da anni ormai il “pollo al cloro” è diventato il simbolo – quasi la bandiera – delle profonde differenze che esistono tra Europa e Stati Uniti quando si parla di approccio al cibo. Non è semplicemente una controversia tecnica o normativa. È molto di più: è uno scontro tra visioni diverse della sicurezza alimentare, della produzione e perfino dell’idea stessa di cosa significhi proteggere i consumatori.
E’ una vicenda che va avanti da un bel po’, ed è davvero interessante capire meglio come un semplice trattamento di disinfezione sia riuscito a trasformarsi in un vero e proprio caso diplomatico-commerciale.
Trump, dazi e polli: l’ultima puntata di una saga infinita
Come spesso accade, è bastato un tweet o una dichiarazione politica a riaccendere la miccia. Quest’ultima volta è stata l’amministrazione Trump ad alzare la temperatura, annunciando nuovi dazi contro vari paesi – Regno Unito incluso – lamentandosi che le restrizioni europee sui prodotti alimentari USA sono, a suo dire, “barriere non basate su evidenze scientifiche che bloccano ingiustamente le nostre esportazioni di prodotti sicuri e di qualità”.
Da noi in Italia, la polemica ha trovato subito terreno fertile. Nicola Fratoianni sui social ha ripreso la questione, allargandola ad altri prodotti come i “maiali alla ractopamina” e alla questione del “Parmesan” del Wisconsin. È sempre la solita storia: quando si parla di cibo, non si parla mai “solo” di cibo.
La storia che nessuno racconta: il pollo americano non è più “al cloro”
La cosa più ironica? Il famigerato “pollo al cloro” non esiste quasi più. Strano, vero? Mentre si continua ad usare questa espressione come se fosse l’attualità, la National Chicken Council americana sostiene che ormai meno del 5% degli stabilimenti USA usa ancora il cloro per disinfettare i polli.

La maggior parte delle aziende avicole americane è passata all’acido peracetico, una specie di miscela tra aceto e acqua ossigenata. Dianna Bourassa, microbiologa specializzata in pollame dell’Università di Auburn, lo conferma: “La stragrande maggioranza del pollo lavorato negli Stati Uniti non viene più trattato col cloro da diversi anni. Il problema è altrove”. Eppure, nonostante questa evoluzione nelle tecniche di disinfezione, l’Unione Europea rimane ferma sulla sua posizione: dal 1997 vieta tutti i “trattamenti di riduzione dei patogeni“, qualunque sostanza utilizzino.
Non è un caso che questa posizione rispecchi perfettamente la crescente preferenza dei consumatori europei – e italiani in particolare – per prodotti con meno sostanze chimiche. Lo si può notare nell’esplosione del mercato biologico italiano, che secondo le stime toccherà i 10 miliardi di dollari entro il 2030.
Sorge quindi spontanea la domanda, se non si chiamasse più “pollo al cloro”, ma avesse un nome più neutro, la percezione pubblica cambierebbe?
Due filosofie opposte, non solo due tecniche diverse
Guardando più a fondo, la questione supera ampiamente l’aspetto puramente chimico. L’EFSA (autorità europea per la sicurezza alimentare) ha riconosciuto che i lavaggi chimici, nelle concentrazioni usate dall’industria americana, probabilmente non rappresentano un rischio concreto per chi mangia quel pollo.
Il punto è un altro, ed è filosofico prima che tecnico. Colpisce l’analisi di Sarah Sorscher, direttrice degli affari regolatori al Center for Science in the Public Interest: “I regolatori europei vedono i lavaggi antimicrobici come un cerotto che serve a nascondere problemi più profondi di igiene. Secondo loro, le pratiche americane non affrontano il problema alla radice”.
L’Europa ha scelto l’approccio “from farm to fork” (dalla fattoria alla forchetta), basato su controlli continui lungo tutta la filiera. Negli USA invece, come spiega Byron D. Chaves, microbiologo dell’Università del Nebraska-Lincoln, “la sicurezza si ottiene soprattutto dopo la macellazione, mentre l’Europa punta sulla prevenzione quando l’animale è ancora vivo, con vaccini e controlli sull’alimentazione”.

Non è una differenza da poco. È come se si parlasse di due concezioni diverse della medicina: prevenire le malattie o curarle una volta che si manifestano.
Il cibo come identità: perché gli europei sono così “difficili”?
Chiunque abbia visitato entrambi i continenti lo sa: gli europei sono decisamente più ansiosi quando si tratta di cibo. Ci si preoccupa dell’origine, dei metodi di produzione, degli ingredienti… e spesso si guarda con sospetto alle innovazioni tecnologiche in questo campo. È il famoso “principio di precauzione” europeo: meglio evitare potenziali rischi piuttosto che doverli gestire dopo.
Durante le trattative sulla Brexit, la prospettiva dell’arrivo del pollo americano ha creato vere e proprie ondate di panico. Sono da ricordare le parole nette del segretario al commercio britannico Jonathan Reynolds: “Non cambieremo mai i nostri standard alimentari”. Un “mai” che lascia poco spazio all’interpretazione.
Liz Webster di Save British Farming è stata, invece, ancora più drastica: “Un accordo con gli USA sarebbe un disastro per l’agricoltura britannica, la sicurezza alimentare, la salute pubblica, il benessere degli animali e l’ambiente”. Le sue motivazioni? “L’agricoltura statunitense è sovvenzionata e industrializzata, usa prodotti chimici e pratiche che qui sono vietate”.
Una tensione che riflette un problema più ampio: i consumatori oggi vogliono sapere cosa c’è nel loro piatto e come ci è arrivato. La percezione che i metodi americani siano meno trasparenti alimenta, veramente tanto, la resistenza europea. Non è solo questione di salute, ma di fiducia.
Ma allora, chi ha ragione? Il pollo americano è davvero meno sicuro?
Questa è LA domanda. E purtroppo non c’è una risposta semplice, anche perché USA ed Europa raccolgono i dati in modo completamente diverso. È come confrontare mele con arance. L’UE porta a supporto della sua posizione statistiche secondo cui il suo approccio “integrato” ha ridotto i casi di Salmonella di quasi il 50% nell’arco di cinque anni dall’introduzione. È un risultato impressionante.
D’altra parte, un rapporto del 2014 della non-profit americana Consumer Reports ha trovato risultati preoccupanti: il 97% dei 300 petti di pollo americani analizzati conteneva batteri potenzialmente dannosi, tra cui Salmonella, Campylobacter ed E.coli. Ancora più allarmante, circa la metà di questi batteri era resistente a tre o più antibiotici.
Ma Byron Chaves ricorda un fatto importante: “La presenza di infezioni da Salmonella e Campylobacter resta alta sia in Europa che negli Stati Uniti. La ricerca mostra che nessuno dei due sistemi funziona alla perfezione”. È un punto che spesso si tende a dimenticare quando qualcuno sceglie da che parte stare.
La guerra dei racconti: chi narra meglio vince
C’è un aspetto del dibattito che spesso sfugge: questa è anche una battaglia di storytelling. L’approccio europeo si presta meravigliosamente a raccontare una storia di rispetto per le tradizioni, benessere animale e sicurezza preventiva. Tutti elementi che risuonano perfettamente con i valori dei consumatori di oggi.
Al contrario, l’immagine del “pollo al cloro” americano – anche se, come si è visto, è un termine ormai anacronistico – evoca inevitabilmente laboratori chimici e processi industriali. Non esattamente l’idea di cibo che fa venire l’acquolina in bocca.
Il Rapporto Coop 2022 lo conferma: “La principale preoccupazione degli italiani per presente e futuro è l’emergenza ambientale, con alimentazione e sostenibilità sempre più intrecciate”. Ecco perché il dibattito sul pollo al cloro è così emotivamente carico: tocca corde profonde legate non solo alla salute, ma all’identità culturale e ai valori ambientali.
Non è un caso che nell’immaginario collettivo italiano ed europeo, il pollo americano sia diventato quasi un simbolo di tutto ciò che si teme: globalizzazione incontrollata, perdita delle tradizioni, industrializzazione del cibo.
Bio contro industriale: due visioni del mondo
Guardando più in profondità, il caso del pollo al cloro è la punta dell’iceberg di uno scontro più ampio tra due modelli: l’Europa che spinge sempre più verso il biologico e la sostenibilità, e gli USA con il loro sistema ultra-industrializzato focalizzato su efficienza e trattamenti chimici.

Le ricerche scientifiche suggeriscono che i prodotti biologici hanno spesso “un contenuto di antiossidanti dal 20 al 70% superiore rispetto ai prodotti convenzionali, oltre a più vitamina C, ferro, magnesio e fosforo”. Sono numeri significativi.
Ma attenzione, bisogna sempre tenere a mente che, “biologico non significa automaticamente sano“. E allo stesso modo, non tutti i trattamenti chimici sono il male assoluto. La vera sfida è trovare un equilibrio tra sicurezza, sostenibilità e costo: non tutti possono permettersi di spendere il doppio per un petto di pollo biologico.
E adesso? Si può imparare qualcosa?
La disputa sul pollo al cloro mostra quanto le scelte alimentari non siano mai “solo” questioni scientifiche, ma un intricato miscuglio di valori culturali, percezioni e filosofie diverse.
Sia l’approccio europeo “dalla fattoria alla forchetta” che quello americano dei trattamenti post-macellazione hanno pregi e difetti. I dati sono chiari: entrambi i sistemi hanno ancora molto da migliorare. Le infezioni alimentari restano un problema serio su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Forse, invece di continuare questa guerra ideologica su quale sistema sia migliore, si dovrebbe cercare una sintesi: prendere il meglio dei due mondi. I controlli preventivi e rigorosi europei uniti all’efficienza e all’innovazione tecnologica americana non sarebbero una soluzione più intelligente?
Si potrebbe dare maggior credito ad un approccio equilibrato, basato sull’informazione e sulla consapevolezza, che forse, è la strada migliore. La trasparenza nei processi produttivi e il rispetto per le diverse sensibilità culturali dovrebbero guidare le politiche in questo settore.
Un consiglio pratico che è giusto dare sempre: qualunque pollo si compri, bisogna evitare di lavarlo sotto l’acqua quando è ancora crudo. La probabilità che si spargano i batteri ovunque in cucina è davvero alta. Ed è fondamentale cuocerlo bene fino a 75°C per essere totalmente al sicuro.
.
In fondo, le scelte alimentari non riguardano mai solo il cibo come prodotto, ma riflettono chi siamo, cosa vogliamo e in che mondo desideriamo vivere. Il dibattito sul pollo al cloro ce lo ricorda con particolare efficacia.