Spreco alimentare: la sfida impercettibile che sta trasformando il settore food

Succede continuamente, ogni giorno. In qualche cucina di ristorante stanno buttando verdure che magari hanno solo una forma un po’ strana, in qualche supermercato finiscono nel bidone yogurt che scadono domani, nelle nostre case dimentichiamo quel pezzo di formaggio in frigo fino a quando fa la muffa. Il tutto mentre nel mondo ci sono ancora centinaia di milioni di persone che non hanno abbastanza da mangiare.

I numeri fanno impressione quando li si guarda tutti insieme. Solo in Italia, l’anno scorso, è finito nella spazzatura cibo per un valore di 14,1 miliardi di euro. Per farsi un’idea: è come se ogni famiglia italiana avesse preso 500 euro e li avesse buttati direttamente nel cestino. E la cosa più preoccupante è che rispetto all’anno prima il fenomeno è cresciuto del 45,6%. Non è proprio quello che ci si aspetterebbe in un periodo in cui tutti parlano di sostenibilità.

Ma il problema vero non sono solo i numeri aggregati. È che dietro queste cifre c’è una realtà che tocca da vicino chiunque lavori nel settore alimentare. Dal piccolo panettiere che ogni sera si ritrova con pane invenduto, al ristoratore che deve calcolare le porzioni senza sprecare ingredienti costosi, fino al produttore di salumi che deve fare i conti con le scadenze. Tutti, prima o poi, si scontrano con questa realtà.

Dove si perde davvero il cibo (e non è solo colpa dei consumatori)

Quando si parla di spreco alimentare, il primo pensiero va al frigorifero di casa. Quella bustina di insalata che diventa marcia, il latte che scade, la frutta che nessuno mangia. È vero, succede. Ma guardando i dati più da vicino, emerge un aspetto interessante: una bella fetta dello spreco, circa il 28,5% in Italia, succede nella fase di commercializzazione. Praticamente tra quando il cibo esce dal produttore e quando arriva sulle nostre tavole.

Questo vuol dire che ristoranti, grossisti, distributori hanno un ruolo importante in tutta questa storia. Ogni volta che si ordina troppo, ogni volta che un prodotto si rovina durante il trasporto, ogni volta che qualcosa viene scartato perché “non ha un bell’aspetto”, si contribuisce al problema. E non è solo una questione etica – sono soldi che vanno in fumo.

Tra l’altro, guardando come sono distribuiti gli sprechi sul territorio italiano, emerge che al Nord si spreca un po’ meno (circa 526 grammi a settimana per persona) rispetto al Sud (713 grammi). Non è una gara, ovviamente, ma fa riflettere su come approcci diversi alla gestione del cibo possano fare la differenza.

Perché sprechiamo così tanto: le cause che spesso non vediamo

Per capire davvero come ridurre lo spreco alimentare, bisogna andare alle radici del problema. E qui la questione si fa interessante perché non è solo una faccenda di disattenzione o cattive abitudini.

Una delle cause principali è questa ossessione per il cibo “perfetto”. Mele senza ammaccature, carote dritte, pomodori tutti uguali. Sembra una sciocchezza, ma in realtà questo standard estetico irrealistico fa sì che tonnellate di cibo perfettamente commestibile vengano scartate solo perché non “sembrano buone”. È un po’ come giudicare un libro dalla copertina, ma applicato al cibo.

Poi c’è il discorso delle date di scadenza, che è un vero casino. Quanta gente butta via prodotti che riportano “da consumarsi preferibilmente entro” pensando che dopo quella data siano velenosi? Tantissima. E il problema è che spesso nemmeno chi lavora nel settore fa sempre chiarezza su questa differenza. “Da consumarsi entro” significa che dopo quella data il prodotto potrebbe non essere sicuro. “Da consumarsi preferibilmente entro” significa che potrebbe perdere qualche caratteristica (sapore, consistenza) ma è ancora buono. Una differenza enorme che però molti non conoscono.

C’è anche una questione più profonda: molte persone hanno perso il contatto con quello che significa davvero produrre cibo. Quando non si sa quanto lavoro, tempo e risorse servono per fare un chilo di parmigiano o coltivare dei pomodori, è più facile sprecarli. È come se il cibo fosse diventato qualcosa di astratto, scollegato dalla terra e dal lavoro che ci sta dietro.

Le nuove tecnologie che stanno cambiando le regole del gioco

Fortunatamente, non mancano le idee per affrontare il problema. E alcune sono davvero interessanti.

Prendiamo Mama Science, una startup italiana che ha messo a punto una specie di “pellicola” biodegradabile che funziona come la plastica ma è fatta solo con materie prime vegetali. Sembra una cosa da fantascienza, ma in realtà è già realtà. Con questo rivestimento, verdure, carne e latticini si mantengono freschi molto più a lungo. Per un ristoratore questo può fare una bella differenza: si può ordinare con più anticipo senza rischiare che gli ingredienti si rovinino, e questo significa ottimizzare sia i costi che la qualità.

Poi c’è Alkelux, un’azienda sarda che ha avuto un’idea geniale: prendere gli scarti della liquirizia e trasformarli in un additivo antimicrobico naturale. Questa polvere, che è completamente solubile e sicura, si può mettere nelle confezioni senza dover cambiare le linee di produzione. Per un piccolo produttore significa poter allungare la vita dei propri prodotti senza compromessi sulla naturalità.

Ma forse l’idea più furba è quella di AgreeNET: hanno creato dei piccoli dispositivi biodegradabili che si mettono nelle confezioni e rilasciano sostanze naturali che proteggono il cibo, come fanno le piante in natura per difendersi. Con questi aggeggi si può arrivare a 20 giorni in più di conservazione. Per chi esporta prodotti freschi, può essere la differenza tra guadagnare e perdere soldi.

Come ridurre lo spreco alimentare

Bene, ma nella pratica, cosa può fare chi lavora nel settore food per ridurre gli sprechi? Dipende molto dal tipo di attività, ovviamente.

Se si gestisce un ristorante, la cosa più importante è probabilmente imparare a gestire meglio l’inventario. Non significa comprare meno per forza, ma comprare in modo più intelligente. Magari pianificare i menù guardando quello che si ha già in dispensa, creare piatti che permettano di utilizzare ingredienti in modi diversi, essere flessibili quando serve.

Molti chef hanno scoperto che questa necessità di ottimizzazione li ha spinti verso una cucina più creativa. Gli “scarti” di una preparazione diventano protagonisti di un altro piatto. È un approccio che fa bene sia al portafoglio che alla creatività.

Sul fronte del “doggy bag”, le cose stanno cambiando. Sempre più ristoratori si stanno rendendo conto che promuovere attivamente la possibilità di portare a casa gli avanzi non è più un tabù, anzi. Con contenitori carini e una comunicazione positiva, diventa quasi un plus del servizio. È anche il bello del food packaging.

Per i produttori il discorso è diverso. Investire in imballaggi migliori può sembrare costoso all’inizio, ma spesso i conti tornano eccome. Meno prodotto che si rovina significa meno perdite, e poter distribuire più lontano significa mercati più grandi. Inoltre, sempre più consumatori sono disposti a comprare prodotti “imperfetti” se il prezzo è giusto e la comunicazione è onesta.

Il ruolo della comunicazione 

Ecco, arriviamo a un punto cruciale. Come si trasforma tutto questo impegno contro lo spreco in qualcosa che i clienti apprezzano e che fa anche bene al business?

La risposta è più semplice di quello che si potrebbe pensare: raccontando le cose come stanno, senza troppi fronzoli. La gente apprezza l’onestà e la trasparenza. Quando un panificio spiega ai clienti che il pane del giorno prima può diventare protagonista di ricette della tradizione, non sta solo cercando di vendere pane vecchio. Sta trasmettendo cultura e valori.

Stesso discorso per un ristorante che racconta come gestisce gli avanzi di cucina. Magari li trasforma in brodi per il giorno dopo, o li dona a chi ne ha bisogno. Non è marketing, è trasparenza. E la trasparenza oggi vale molto.

L’importante è non cadere nel tranello del “greenwashing” facile. I consumatori, soprattutto quelli più giovani, sanno riconoscere quando si sta raccontando una storia vera e quando invece si stanno solo vendendo slogan. La differenza è tangibile e si vede subito, per questo motivo, spesso, è meglio affidarsi ad agenzie specializzate come la nostra, oppure seguire delle guide approfondite sul food marketing.

Una cosa che funziona sempre è l’educazione. Spiegare come conservare meglio gli alimenti, come leggere le date di scadenza, come riutilizzare gli avanzi. Non solo è utile per i clienti, ma posiziona chi lo fa come un esperto di riferimento. E questo vale oro in termini di fiducia e fedeltà.

Le opportunità che offre la legge italiana per evitare lo spreco alimentare

Una cosa di cui forse non tutti sono al corrente è che l’Italia ha una delle leggi più avanzate d’Europa per quanto riguarda la donazione di cibo. La legge 166 del 2016, conosciuta come “legge Gadda”, ha reso molto più semplice donare le eccedenze alimentari a organizzazioni che se ne occupano.

Questa non è solo una questione di fare del bene (che comunque non guasta). È anche un’opportunità di business intelligente. Quello che prima era un costo – smaltire il cibo invenduto – può diventare una partnership con il territorio. E le storie che nascono da queste collaborazioni sono spesso molto più potenti di qualsiasi campagna pubblicitaria.

Un panificio che racconta di come il suo pane invenduto diventa cena per famiglie in difficoltà sta costruendo un legame con la comunità che va molto oltre la semplice vendita. È il tipo di storia che la gente si ricorda e che condivide.

Dove stiamo andando

Guardando avanti, è abbastanza chiaro che la riduzione dello spreco alimentare non sarà più un optional. I consumatori, soprattutto i più giovani, stanno diventando sempre più attenti a questi temi. E premiano con i loro acquisti (e la loro fedeltà) chi dimostra di prendere sul serio queste questioni.

Le tecnologie continueranno a evolversi. Probabilmente tra qualche anno avremo sistemi ancora più sofisticati per prevedere la domanda, monitorare la conservazione dei prodotti, ottimizzare le scorte. Ma la vera differenza la faranno sempre le persone e le aziende che sapranno usare questi strumenti in modo intelligente.

L’obiettivo delle Nazioni Unite è dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030. Sembra una montagna da scalare, ma se ogni italiano riducesse i propri sprechi di circa 50 grammi a settimana ogni anno, si potrebbe fare. Non è impossibile, ma serve un cambio di mentalità diffuso.

Il punto della situazione

Alla fine, lo spreco alimentare è una di quelle questioni che sembrano enormi e complicate, ma che in realtà si possono affrontare con un po’ di buon senso e le giuste strategie. Per chi lavora nel settore food, può anche diventare un vantaggio competitivo, se affrontato nel modo giusto.

Non si tratta di stravolgere tutto dall’oggi al domani, ma di fare piccoli passi costanti. Ottimizzare la gestione delle scorte, investire in tecnologie che aiutano a conservare meglio i prodotti, comunicare in modo onesto il proprio impegno, educare i clienti. Cose fattibili, che spesso portano anche benefici economici diretti.

La verità è che combattere lo spreco alimentare non è solo la cosa giusta da fare dal punto di vista etico o ambientale. È anche una mossa intelligente dal punto di vista del business. E questa, probabilmente, è la motivazione più forte per muoversi in questa direzione.

Marco Foti

Nato con la penna in mano e il palato raffinato, Marco Foti è il volto dietro il blog di Food4Mind e il social media writer per alcuni dei clienti più importanti dell'agenzia. La sua storia inizia con la passione per il cibo, un amore che negli anni lo ha portato a lavorare in un mondo tutto da scoprire, pregno di storie da condividere. Nel 2023, Marco ha deciso di unire questa passione a quella per la scrittura e raccontare da sé tutto ciò che questo mondo ha da offrire.